Risarcimento della perdita del rapporto parentale in presenza di infezioni nosocomiali

Il risarcimento della perdita del rapporto parentale in presenza di infezioni nosocomiali

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 6386 del 3 marzo 2023, si è occupata del problema delle infezioni nosocomiali nel caso in cui comportino il successivo decesso dell’ammalato.
È noto che le infezioni ospedaliere rappresentano un fenomeno altamente ricorrente.
Sono per lo più prevedibili poiché rientrano tra le possibili complicanze dell’intervento chirurgico e sono spesso correlate alla degenza, ma sono anche evitabili specialmente qualora si seguano le linee guida specifiche per la prevenzione del contagio e mirate a garantire la sterilità degli ambienti e delle attrezzature usate.

Cerchiamo di capire meglio cosa sono le infezioni nosocomiali e in quali strutture o luoghi di assistenza possono essere contratte.
Innanzitutto, si tratta di malattie infettive il cui contagio avviene durante un periodo di ospedalizzazione o nel corso di un trattamento chirurgico all’interno della struttura sanitaria.

Le contaminazioni possono anche derivare da una errata applicazione di specifiche procedure medico-sanitarie o possono essere legate a trasmissioni derivanti da contatti con soggetti esterni alla struttura sanitaria.
Inizia così a farsi strada un nuovo concetto di infezione non legata esclusivamente al luogo ospedaliero, ma in generale alla scarsa attenzione nell’impiego di procedure medico-sanitarie.
Dunque, l’evoluzione del concetto da infezione ospedaliera a infezione correlata all’assistenza (ICA) sposta l’attenzione anche su altri luoghi in cui è possibile fornire assistenza sanitaria come, ad esempio, le residenze per anziani o le strutture di lungodegenza.
In materia di infezioni nosocomiali molto importante è riuscire a provare il nesso causale tra l’evento lesivo e il danno lamentato: da un lato, è il paziente a dover dimostrare la relazione diretta tra l’insorgere dell’infezione e la prestazione sanitaria;
mentre, dall’altro lato, è la struttura sanitaria a dover difendersi, a dover fornire la c.d.” prova liberatoria” per non essere considerata responsabile del danno lamentato dal paziente ossia la struttura deve riuscire a dimostrare di aver adottato tutte le precauzioni necessarie a contenere o limitare il rischio infettivo.
In altre parole, è la struttura a dover provare che l’infezione contratta dal paziente sia da attribuire ad una causa imprevedibile ed inevitabile, nonostante la corretta ed esatta esecuzione della prestazione sanitaria.
Nel caso di specie, una donna- che doveva effettuare un intervento oculistico già programmato- contraeva un’infezione in ospedale e moriva alcuni giorni dopo.

I parenti della vittima presentarono una richiesta di risarcimento per la perdita del rapporto parentale contro la struttura sanitaria ritenendola responsabile per la negligenza del personale sanitario e per la sopravvenuta infezione nosocomiale.

Il giudice di prime cure respinse la richiesta dei congiunti della vittima perché pur ritenendo responsabile la struttura per il comportamento dei medici di fatto, i ricorrenti non erano riusciti a dimostrare il nesso causale tra l’infezione nosocomiale e l’operato dei sanitari.
I ricorrenti proponevano appello, che però confermava quanto stabilito dal Tribunale di primo grado poiché secondo i giudicanti non era neanche possibile stabilire con certezza che la paziente – se fosse stata curata nel migliore dei modi- sarebbe sopravvissuta all’infezione.
Contro la sentenza della Corte di Appello i parenti della vittima ricorrevano in Cassazione che ribaltava quanto stabilito nel giudizio di primo grado perché secondo gli Ermellini era stato dimostrato il nesso di causalità dai ricorrenti in quanto il decesso della paziente era stato causato dall’infezione contratta in ospedale.
La struttura, in definitiva, era stata ritenuta responsabile della morte della de cuius.

 

Dott. Luigi Pinò


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