I confini del consenso informato: facciamo chiarezza

La Corte di Cassazione Civile con la pronuncia in esame, ordinanza n. 16633 del 12 giugno 2023, si è occupata del tema del consenso informato cercando di delineare i confini e i limiti del diritto all’informazione indispensabili per considerare valido il consenso prestato del paziente.
Prima di occuparci degli aspetti della sentenza, è opportuno chiarire il concetto di consenso informato e delle peculiarità che lo contraddistinguono.
Il consenso informato rappresenta la manifestazione di volontà consapevole del paziente di accettare o rifiutare i trattamenti medico-sanitari che verranno proposti dal medico.

Il consenso deve essere informato, consapevole, completo, globale, specifico.

Nel consenso informato l’interessato deve essere correttamente edotto dal medico tramite un linguaggio comprensibile.
Per consenso consapevole deve intendersi la possibilità che ha il paziente di intendere e capire quali siano le complicanze eventuali o i possibili rischi in seguito ad un trattamento proposto.
Il consenso specifico riguarda solamente una determinata prestazione e dunque non può considerarsi valido se viene fornito in bianco.
Per consenso globale s’intende la possibilità per il paziente di ricevere ogni informazione possibile per ciascuna fase del trattamento proposto.
In particolare, gli ermellini ribadiscono ancora una volta che, prima di eseguire una prestazione sanitaria, i medici son tenuti ad informare debitamente il paziente sulle singole fasi del processo, sulle eventuali o possibili complicanze in modo da permettere alla persona interessata di scegliere liberamente e consapevolmente se fornire o meno il consenso per il trattamento da ricevere.
Bisogna, inoltre, ricordare che la legge n. 219 del 2017 regola espressamente il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento.
In particolare l’art. 1 stabilisce che: “Nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.

La stessa legge all’art. 2, invece, stabilisce che: “Nella relazione di cura tra paziente e medico viene tutelata da un lato l’autonomia decisionale del paziente e dall’altro viene garantita la professionalità e la competenza del medico”.
Nel caso di specie, la persona interessata citava in giudizio l’azienda sanitaria, presso la quale aveva effettuato un intervento di asportazione di un’ernia discale, e chiedeva il risarcimento non solo del danno biologico e di quello patrimoniale per un intervento non eseguito correttamente, ma anche di quelli derivanti dalla lesione del diritto di autodeterminazione poiché il consenso informato non era valido.
Il paziente concretamente lamentava una incompleta e non esaustiva informazione ricevuta dai sanitari circa i possibili rischi o le eventuali complicanze che si sarebbero potute presentare dopo l’intervento di rimozione dell’ernia discale.
Il giudizio di primo grado si concludeva con il rigetto delle pretese attoree.
La persona danneggiata proponeva ricorso in appello e in questo grado di giudizio veniva esclusa la responsabilità dei sanitari per la complicanza verificatasi, ma a questi ultimi si contestava la violazione degli obblighi di informazione fornita al paziente circa le possibili o le eventuali complicanze che potevano verificarsi dopo l’intervento.
Proprio in virtù della lesione del diritto di informazione per il paziente, la Corte di Appello condannava l’azienda sanitaria a risarcire il paziente per una somma pari a 7000 euro.
L’azienda sanitaria si opponeva a tale sentenza e proponeva ricorso in Cassazione.
Secondo la Corte di Cassazione il non aver acquisito il consenso informato può avere un peso diverso, se ad essere leso è stato il diritto di autodeterminazione del paziente oppure il diritto alla salute.
Nel primo caso si verifica l’ipotesi in cui la persona interessata se correttamente informata avrebbe potuto non prestare il proprio consenso, ma di per sé il trattamento non crea un danno; nel secondo caso, invece, assume una rilevanza maggiore qualora abbia provocato una lesione permanente al paziente.
Nel primo caso si ha la semplice violazione del diritto per il paziente di poter decidere se aderire o meno ad una prestazione medica.

Nel secondo caso il peso è maggiore perché da un lato vi è la violazione dell’autodeterminazione, ma dall’altro rileva anche la circostanza secondo cui il paziente ha subito un danno permanente dall’intervento stesso.

 

 

Dott. Luigi Pinò


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